Navigando su internet mi sono imbattuto in questo articolo. Non so di chi sia perchè non è firmato (metto cmq il sito dal quale l'ho tratto
http://associazioni.comune.firenze.it/c ... ologia.htm). Provate a dare un'occhiata e ditemi cosa ne pensate. Scusa per la lunghezza, ma è leggero e discorsivo e passa in fretta.
La psicologia del cavallo
In un beato paese come il nostro, in cui anche a livelli superiori di istruzione si confonde tranquillamente la psicologia con la, psicanalisi ed in cui il cavallo é genericamente definito una "bestia", si può immaginare quanto importi la psicologia equina.
Il primo dato, il più importante, il più diffuso perlomeno che si sente enunciare a tutti i livelli e da quasi tutte le bocche é questo: il cavallo non é intelligente.
A prescindere dal fatto che, anche per gli uomini, la definizione di intelligenza é sempre quanto mai generica, troppe essendo le possibili componenti (capacità di intelligere sì, ma anche istinto, memoria, erudizione, furberia, prontezza di riflessi mentali, profondità noiosa e superficialità brillante, e aggiungete tutto quel che vi pare), pare poco probabile che qualunque essere possa giudicare indifferentemente una "intelligenza" secondo un metro valido.
Identico ragionamento seppure esposto in forma fin troppo semplicistica, ma non tutti hanno l'intelligenza di esprimersi a dovere, così come non tutti hanno l'intelligenza di capire al volo, si può fare per gli animali, quanto meno per certi animali, in particolare per quelli domestici (che, a furia di stare accanito all'homo sapiens, qualcosa dovrebbero pur aver ricevuto, magari per contagio). E, fra gli animali domestici, in primo luogo stanno il cane ed il cavallo. Sono stati pubblicati numerosi volumi in diverse lingue per raccontare cento e cento episodi e far brillare l'intelligenza del cane.
Nessuno obietta ma, in genere, si tratta di racconti connessi il più delle volte con la fedeltà del cane verso il suo padrone, di cani che hanno percorso centinaia di chilometri per ritrovare la casa dell'amico uomo o si sono lasciati morire di fame e consunzione sulla tomba del padrone.
Perché, e il cavallo no? Quante storie sono state scritte sui cani e quante sui cavalli?
Soprattutto non si pone mente a diversi fattori d'indole pratica. Anzitutto il cane vive quasi sempre, anche se non é "da salotto", vicino al suo padrone, che sovente lo tiene a dormire accanto al letto o a mangiare presso la tavola, comunque lo mantiene dentro le mura casalinghe.
Dite poco? c'é uno stretto contatto, una frequentazione continua e carezze e zuccherini, raramente un calcio o una cinghiata. Col che non si vuole assolutamente mettere in dubbio le doti "morali" del cane.
E il cavallo? Da piccolo, da puledro, se gli va bene lo lasciano pascolare con la madre prima e con i coetanei poi in un prato: altro che le moine e le copertine di lana dei cuccioli. Una volta adulto, il cavallo viene messo in una stalla, quasi sempre da solo. L'uomo lo tira fuori solo quando ne ha bisogno: per lavorare se é un cavallo da tiro, per l'allenamento se é da corsa. Finito l'impegno quotidiano, via di nuovo nella scuderia (non sempre degna di tale nome), un letto di paglia, un mucchio di fieno, ai più fortunati qualche chilo di avena. Ma silenzio, buio e solitudine. E, nel contatto con l'uomo, meno infrequenti di quanto si pensi sono gli urlacci ed i colpi dello stalliere, le frustate o le spronate o l'esigenza dell'impossibile da parte del padrone (intendendo per tale anche il fantino, il cavaliere, il guidatore).
Una bella differenza di trattamento e di vita. E poi si devono considerare anche le caratteristiche fisiche.
Il cavallo é grosso, ingombrante ed é quindi impossibile tenerselo in casa (ma gli arabi lo tenevano sotto la tenda come il compagno più prezioso e fidato) ma non né ha colpa lui. La separazione perciò é obbligatoria ma quel grosso scheletro ricoperto di carne e muscoli porta altri inconvenienti: se un cane allunga una zampa, al massimo ti fa un graffio; se l’allunga un cavallo ti può colpire gravemente: sta perciò all'uomo "intelligente" non mettersi in condizione di ricevere la zampata e dal cane e dal cavallo. Per non parlare dei sensi: si sa (almeno si crede di sapere) che i due sensi più sviluppati nel cavallo siano l'udito (ogni esperto uomo di cavalli sa quanto può capire osservando i movimenti delle orecchie) e l'olfatto (se é vero, c'é da stupirsi che non l'abbiano mai usato per la ricerca dei tartufi).
Ma la vista? Ancora oggi non sappiamo granché sulla vista del cavallo:
come ci vede, come vede noi uomini? Come siamo, oppure come ombre gigantesche e terrorizzanti o, come ombre confuse? Forse che il verbo "adombrarsi" non é stato creato inizialmente quasi apposta per i cavalli?
Con tutto ciò, anzi nonostante tutto ciò, il cavallo é e diventa meno stupido di quanto lo diventerebbe qualsiasi uomo si trovasse nelle stesse condizioni e venisse trattato nella stessa maniera.
Riconosce (talora anche per paura, d'accordo, ma si vedono cani con lo stesso atteggiamento) il padrone al passo, alla voce e perfino dal modo con cui sono rette le redini. Se può, evita di fargli male: quante volte, nella caduta su un ostacolo o nel ruzzolone da una china, nonostante il trambusto e il trauma per l'incidente inatteso si é visto il cavallo fare l'impossibile per non colpire o travolgere o schiacciare il cavaliere. Si ribella, é vero, se viene battuto senza motivo (ma lo facciamo anche noi); fa la carognetta - tipica caratteristica dei cavalli da scuola - se avverte in sella o sul veicolo un "manovratore" intimidito o poco esperto (ma lo facciamo anche noi); c'é il cavallo "matto" e quello "falso", gli uomini invece....
Quelli che fanno la massima concessione all'intelligenza equina la definiscono soprattutto memoria: il cavallo del lattaio che si fermava sempre alle stesse porte (e quello del carrettiere sempre alle stesse osterie), il cavallo da circo che ripete sempre gli stessi esercizi al suono della stessa musica, il cavallo da guerra che si eccitava nel sentire la "carica".
L'amore ha tanta parte nella psicologia. Bene: in tanti anni passati in mezzo ai cavalli ed agli uomini di cavalli, avrò sentito ammettere non più di un paio di volte questo pudico e così importante amore per l'animale. Se lo amate, se lo sapete amare, forse anche un serpente a sonagli diventa intelligente.
Ma, specialmente nel mondo delle corse, questo benedetto "amore" è più raro di un vincitore offerto a mille contro uno. Si é visto piangere un noto allevatore perché una sua importante fattrice era morta di parto: ma, una volta asciugate le lacrime, l'uomo commentò: "Mi era costata trenta milioni...".
Si è visto un popolare fantino disperato perché il suo campione era rientrato gravemente zoppo dalla corsa: ma l'uomo non compiangeva il dolore fisico dell'animale, contava mentalmente i quattrini di percentuale sulle vincite che gli sarebbero venuti a mancare per un bel pò di tempo.
A questo punto la psicologia del cavallo (e lasciamo perdere la famosa e nebulosa "intelligenza") s'interseca e si scontra con la psicologia dell'uomo. Il quale, si sa, sempre psicologo non è.
Una gentile nobildonna acquistò un irlandese da concorso per le sue passeggiate in campagna. Adoperato, cioè montato, soltanto una o due volte la settimana, l'animale, insanguato da madre Natura, dopo un pò di tempo cominciò a fare i capricci, ad imbizzarrirsi e a far spaventare la contessa, la quale cominciò a spargere la voce che il suo cavallo era "matto", così che, quando volle liberarsene (a causa di quella sua paura ed inesperienza ed incapacità che non avrebbe mai riconosciuto), incassò un quarto di quanto aveva speso inizialmente. Naturalmente, in mano ad un cavaliere esperto, il cavallo "matto" rinsavì presto. Un parvenu, proprietario di cavalli da trotto in abbondanza (che sicuramente andrà a cercare sul vocabolario, se lo possiede, il significato del termine parvenu, e ci rimarrà male ma soprattutto si offenderà), trovandosi in scuderia un soggetto americano piuttosto "avanti" (come si dice in gergo ippico, cioè un soggetto molto nevrile ed estremamente emotivo) e convinto che il suo allenatore-guidatore non avesse sufficiente grinta per dominare "quella bestia", lo affidò ad un allenatore fra i più brutali. Gli avrebbe insegnato lui, gli avrebbe insegnato.
Altroché, se gli insegnò. Il cavallo non fu più da corsa. Quando, probabilmente, sarebbero bastate le buone maniere, non dico il solito zuccherino ma un pizzico di psicologia.
Poi ci sono gli "ippopadri" e le "ippomadri", cioè quei "commenda", e relative consorti, che, non appena il prezioso erede mostra di stare in sella appena decentemente, pretendono che partecipi ai concorsi ippici importanti e gli comprano il saltatore irlandese o tedesco da milioni a barili. Per un pò il cavallo, si capisce, fa il suo dovere ma poi, poiché non è uno stupido come si dice, approfitta della situazione e diventa svogliato fino alla neghittosità, perde la concentrazione, rifiuta di saltare e fa accumulare al padroncino (o padroncina) tante brutte figure, con grave scorno dell'ippopadre, il quale protesta convinto di essere stato buggerato. Non capendo, non volendo capire che sarebbe come affidare una Ferrari formula Uno ad un ragazzetto col foglio rosa, in più senza il conforto dei tecnici e dei meccanici della fabbrica, pronti a modificare, a stringere un bullone, a oliare una parte, vale a dire a correggere i difetti nella rincorsa, sull'ostacolo, nel cambio di mano (ma cos'é questo "cambio di mano"?, si chiedono angosciati tanti ippofigli).
Ma, a livello più elementare, nessuno ha ancora voluto capire che il bambino deve imparare a montare su una cavalcatura adatta alla sua statura ed alle sue forze. Nei paesi ippicamente più progrediti (ma verrebbe voglia di scrivere "più civili"), i bambini cominciano a cavalcare sui ponies (non i bizzosi e svogliati Shetland, ma i Mountain, i Welsh) e, seguendo la crescita, passano poi a mezzi ponies e gradatamente a cavalli più alti.
Le poche scuole di equitazione italiane che hanno tentato la giusta via dei ponies hanno dovuto ricacciare fuori dalle scuderie gli innocenti cavallini a furor di popolo. "Perché mio figlio - berciavano gli ippopadri e le ippomadri - su quel "coso" e gli altri sui cavalli grandi?". Senza capire che un bambino di otto-dieci anche dodici anni, messo in sella ad un cavallo di un metro e sessanta e anche più al garrese, non può non avere paura, si trova altissimo da terra, vede lontana e gigantesca la testona del cavallo: in breve, non si sente sicuro e, cosa ancor più grave, non può, non potrà mai prendere confidenza col cavallo, imparare a mettergli e togliergli la briglia e la sella, pulirgli gli zoccoli e tutte quelle altre piccole cure che devono essere il minimo bagaglio di un cavaliere.
Dio ne scampi, poi, se l'ippofiglio cade di sella: allora l'ippopadre e l'ippomadre lo riportano precipitosamente a casa, e allora addio alla scuola di equitazione. Col che, tante volte si interrompe bruscamente un'inclinazione che poteva essere naturale o dettata da genuina passione e si impedisce di creare nuovi cavalieri e nuove amazzoni.
Ma, se queste sono manifestazioni di una mentalità inesperta e pretenziosa, non tanto meglio vanno le cose in campo professionale. Mai sentito un allenatore da corsa osservare: quel cavallo, tanto per fare un esempio, ha l'occhio intelligente e onesto.
Macché, frega assai degli occhi: loro guardano i garretti, la muscolatura, il modo di galoppare o di trottare.
Badano al rendimento più che al carattere, tanto, se il cavallo é bizzoso o sleale, penseranno la frusta ed altri mezzi punitivi e coercitivi a metterlo in riga.
Si son viste infliggere ai cavalli da corsa, mica in pista, eh no, ma nel chiuso del recinto delle scuderie, punizioni così mostruose (inteso come mentalità mostruosa del castigatore) da chiedersi perché mai la Provvidenza abbia concesso al primo cavallo di farsi soggiogare dal primo uomo: tutto, poi, senza neppur chiedersi se quel tal modo di comportarsi dell'animale non fosse determinato da un'anomalia fisica o da un male transitorio piuttosto che presunti difetti di carattere.